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ESCLUSIVA – Uribe : “Cagliari, non vi dimenticherò mai!”

Uribe

Il fantasista peruviano ricorda i compagni, i tifosi, la serie A e le tre stagioni in rossoblù: “Aver rifiutato la panchina a Pisa è stato il mio errore più grande”

Ha un desiderio nel cuore: tornare in Italia per allenare. “Vi devo tanto, Cagliari e la sua gente, tutti gli sportivi sardi, ho sempre avuto affetto e attenzioni che non ho potuto ricambiare come avrei voluto. Mi piacerebbe provarci, sarebbe il sogno della mia vita”. Julio César Uribe, cartolina da Lima, quartiere di San Isidro. Negli anni Ottanta è il terzo numero 10 del sud America dopo Maradona e Zico: “All’Olimpico sono stato premiato come miglior giocatore straniero del girone d’andata proprio dietro il capitano del Brasile e dell’Argentina. La soddisfazione più grande della mia carriera anche perché mi diede il trofeo Nils Liedholm. La Roma? Sì, mi cercava ma Riva venne a prendermi e mi convinse dopo aver parlato con il mio allenatore Alberto Gallardo, che aveva giocato a Cagliari negli anni ‘60”. Catturato da Rombo di tuono che per lui volò in Perù, dopo scudetti, coppe, inclusa la Libertadores, e trofei in America Latina, dallo Sporting Cristal di Lima all’America in Messico. Uribe gioca un buon mondiale in Spagna (39 presenze e 9 reti) e in seguito allenerà per due anni anche la nazionale peruviana.

 “Giocatore di classe sopraffina” dirà Enzo Bearzot, ct dell’Italia campione del mondo a Spagna ’82. Poi, Cagliari e il Cagliari. Il Diamante nero mette in fila tre annate, 60 gettoni e 11 reti. La prima, nell’82, ci chiude con la retrocessione. La villetta al Margine Rosso (“Il mio vicino di casa era Fabio Poli”, gli allenamenti tra Sant’Elia e campo del Poetto, le amicizie e l’affetto della tifoseria. Uribe, classe ’58, parte proprio da qui: “Ricordo una delle prime amichevoli. Ero appena arrivato, giocavamo in un paesino (Villanovaforru, ndr), ero a disposizione: tutti volevamo una foto, autografi su maglie e palloni. Una cosa mai vista”. Insomma, amore a prima vista. La chiamata coglie l’ex tecnico della nazionale peruviana in casa. Italiano fluente (“Grazie al mio amico Gigi Piras”), approccio umile e generoso al tempo stesso. La telefonata lo emoziona: “Parlare di Cagliari e della Sardegna mi leva un po’ il fiato”.

Partiamo dalle sensazioni che scaldano il cuore. Julio qual è l’ambizione?
Mi piacerebbe molto tornare a Cagliari e in Italia. Anche per fare meglio di quel che ho dato da calciatore. Allenare nei vostri campionati sarebbe la cosa più bella che potrebbe capitarmi”.

Passo indietro. Quali sono i ricordi principali in campo e fuori?
Gli amici e la gente. Tra i compagni oltre a Gigi, che era il mio fidanzato (ride, ndr) tale e tanta è stata l’amicizia che ci ha legato e ci lega, ricordo tutti: da Malizia a Selvaggi, Sandrino Loi, Quagliozzi, Vavassori, Marchetti, Carnevale, Imborgia. Mi trovai molto bene, era un gruppo sano, senza capetti né direttori. Andavamo a cena a La Marinella, all’Ottagono e al Cavalluccio Marino. Gli spaghetti cozze e arselle mi facevano impazzire. Ricordo le passeggiate in via Roma, la simpatia del capo tifoso Mario Cugusi, i nostri sostenitori erano molto attaccati ma non ci mettevano pressione. Si capiva che ci volevano bene. Una città e una terra speciale. Non vi dimenticherò mai”.

Un inizio da campione poi qualcosa è andata storta. Qual è il rammarico?
Ho commesso un grande errore nell’andare in tribuna, e non in panchina, a Pisa dopo la sostituzione. Poi, ho chiesto scusa al tecnico Gustavo Giagnoni e ai compagni. Li ho portati a cena, lo spogliatoio era un luogo magico ma non siamo riusciti a ripartire. Convinsi il presidente Amaragi a non esonerare l’allenatore, gli promisi che avrei dato tutto me stesso per invertire la rotta. Non ci fu nulla da fare. Non me lo perdono, sarei rimasto per sempre”.

Ha accennato a Gigi Piras, tra i super bomber della storia rossoblù. Qual è stata la scintilla della vostra amicizia?
Gigi è un grande. In campo bastava uno sguardo per capirci, aveva un senso del gol pazzesco. Poi, mi ha aiutato a imparare la lingua, a capire voi sardi, le abitudini, a fidarmi e mettermi a disposizione. Siamo rimasti molto legati, ci vediamo con le famiglie: due anni fa sono stato da voi, c’era anche il mio campare Fabio Fanelli. Abbiamo trascorso una vacanza fantastica. Gigi mi ha portato anche al Museo, su in Castello. Cagliari è sempre bellissima, calda, rispettosa, accogliente. Ho imparato a vivere ancora prima che a giocare”.

URIBE CON PIRAS E LE RISPETTIVE CONSORTI

In A, venti presenze e due reti. Le ricorda?
“Sì. Perdiamo 3-1, segno contro la Fiorentina di Antognoni e Passarella, Graziani, Bertoni e Pecci, Cuccureddu e Galli. Poi, apro le marcature con il Verona, segna anche Gigi, per loro Penzo e Fanna. Quel Verona lo allena Bagnoli, ci giocano Di Gennaro, Dirceu, Marangon, Sacchetti e Volpati e, con Garella, Briegel ed Elkjaer, nel 1985 vincerà lo scudetto. Forse, è stata la mia partita migliore”.

Come si descrive ai lettori più giovani?
Bella domanda! Dribblavo, facevo fantasia con la palla, portavo via due avversari, aprivo spazi ai compagni e battevo bene le punizioni. Ero un nove e mezzo, non avevo paura e andavo avanti. Adesso non lo fanno, toccano una volta e si disfano del pallone. Ma la qualità tecnica serve per prendere campo. E, se ben organizzata, è fondamentale per vincere”.

C’è qualcuno che le somiglia?
Per la gestione della palla penso a Verratti, per le giocate a Insigne. Ma il calcio è cambiato per la velocità e l’organizzazione. Giocatori come Mbappé, Neymar, Cristiano Ronaldo e Messi, il migliore al mondo in tutte le fasi del gioco, hanno una rapidità d’esecuzione mostruosa”.

Stiamo al presente. Segue il Cagliari?
Sì, l’ultima partita che ho visto è quella con il Benevento. Hanno perso male, mi sono sembrati con poco equilibrio. Adesso, hanno preso una discesa pericolosa anche perché i numeri non mentono mai: prendono più reti di quante ne facciano e le partite diminuiscono. Mi hanno parlato bene di Di Francesco ma deve risolvere questo problema. Poi, puoi avere atteggiamento offensivo,  andare avanti ed essere propositivo. Ma per vincere serve intelligenza”.

Parliamo dei singoli. Chi ammira?
Degli ultimi anni il più forte è stato Barella. Poi, penso a Nainggolan, Nàndez, e Simeone, il figlio di Diego. Ecco, dico che con gli allenatori, così come hanno fatto a Madrid quelli dell’Atletico con il Cholo che in avvio soffriva e poi ha vinto tutto, i dirigenti devono avere pazienza. L’allenatore deve sempre cercare l’uomo prima del campione. Deve sapere con chi attaccare e con chi contrattaccare”.

Ha un consiglio per Di Francesco?
Con quelli più bravi un allenatore deve usare la testa”.

Julio, qual è stata la sua ultima panchina?
Nel 2017 ho provato a salvare il Juan Auric in Prima divisione. C’erano dieci partite e abbiamo fatto il doppio dei punti che avevano raccolto nelle prime venticinque. Ho lavorato sulla metodologia del lavoro, sulla concentrazione e sulla vicinanza tra reparti. I giocatori hanno risposto. Mi hanno chiamato perché pensavano che facessi il miracolo ma non è stato umanamente possibile”.

E adesso fa un pensierino per rientrare in Italia?
L’idea mi piace molto, un amico mi sta dando una mano. Sarebbe bellissimo anche se so che il mercato è complicato con le società che entrano molto sui temi tattici e sulle scelte. In ogni caso, un abbraccio a tutti i sardi”.

 

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