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Cera: “Il nostro scudetto una follia generale. Tutti tifavano per noi”

Dalla sua casa di Cesena l’ex rossoblù ha ricordato a La Nuova Sardegna il clamoroso successo tricolore diventato realtà il 12 aprile 1970 nello storico stadio Amsicora

La festa ci sarà e lui sarà ovviamente presente. Al momento la rievocazione con i presenti di quello storico scudetto del Cagliari, datato 12 aprile 1970, per colpa del Coronavirus, è solo rimandata. “Peccato – dice Pierluigi Cera, raggiunto al telefono da La Nuova Sardegna nella sua casa di Cesena – comunque ho appena saputo che la festa è stata solo rinviata, dovremmo incontrarci tutti a Cagliari a dicembre”.

LO SCUDETTO. “Per vincerlo erano accreditate Roma, Juventus, Napoli e poi c’eravamo noi… – ricorda orgoglioso –  È stato un momento di impazzimento generale, tutti tifavano Cagliari, il segreto? Quell’alchimia speciale che si era creata tra di noi, una cosa rara, prima che compagni di squadra eravamo amici, vivevamo tutto il giorno insieme in una foresteria di dieci stanze. Io, Riva, Tomasini, Reginato… gli allenamenti poi la sera in giro. Con Cappellaro e Riva comprammo una Fiat 600. Le corse al Poetto… che ricordi”. Lui era il capitano di quella squadra, ma dice: “Nessun merito particolare, nel calcio vince la squadra non un uomo solo al comando, è la regola. Poi per me non era una novità, ho sempre fatto il capitano, anche prima di arrivare al Cagliari”.

CARISMARICO. “La prima volta al Verona, avevo 21 anni. Poi, una volta lasciato il Cagliari, anche al Cesena. Sempre capitano. Come ho fatto? È una questione di carisma, certo, ma l’aspetto mentale è importante, non ho mai perso la testa e sono sempre stato di poche parole, un po’ come i sardi. E poi al Cagliari avevo un’immensa fiducia da parte di Scopigno. Prima di me il capitano era Longo, l’italo-argentino. Quando è stato ceduto all’Atalanta l’allenatore mi ha dato subito la fascia. Adesso che ci penso c’è stata una volta in cui non sono sceso in campo da capitano: con la nazionale ai Mondiali di Messico ’70, il capitano era Facchetti!”

“La paga non era male per quei tempi: 7 milioni di ingaggio più i premi partita, guadagnavamo soprattutto coi premi partita, in tutto 15 milioni di lire, non male per quei tempi. Il botto lo abbiamo fatto con la vittoria dello scudetto: 50 milioni di lire a testa, una bazzecola se paragonata ai guadagni stratosferici dei calciatori di oggi ma cifre importanti per allora, un insegnante guadagnava 70 mila lire l’anno. Con i soldi dello scudetto avevo comprato un bell’attico a Cagliari, speravo di ritornarci invece poi una volta arrivato a Cesena non mi sono più mosso, finita la carriera da calciatore sono diventato dirigente, e poi mi sono sposato. Quell’attico l’ho venduto, che peccato”.

LA GARA DELLA SVOLTA. “Erano tutte belle, tutte combattute, certo l’incontro decisivo era stato quello con la Juventus, loro erano due punti sotto, non potevamo perdere. C’era stata un po’ di maretta, Lo Bello fischiava tutto. Prima l’autogol di Niccolai , poi il pareggio di Gigi. Poi rigore alla Juve. A quel punto parlo con l’arbitro, a questo serve un capitano. Buttano giù Riva, rigore. All’82’ è 2-2. Il resto è storia… Abbiamo festeggiato il 12 sera a casa di Arrica, il presidente. Ma furono festeggiamenti brevi, Perché io, Albertosi, Niccolai, Domenghini, Gigi e Gori eravamo stati convocati per i Mondiali in Messico. Se ci penso, che squadra, sei del Cagliari in Nazionale. E che mondiale, il 4-3 coi tedeschi è stato votato miglior partita del secolo, l’ho rivista proprio l’altro giorno su Raisport.

BARELLA.  “Un mio figlio calcistico è lui. É più completo del sottoscritto, io ero centrocampista puro, lui invece… Farà strada il ragazzo, tanta strada”.

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