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Torino, la macchina del tempo: storia e protagonisti

Torino vuol dire leggenda: il prossimo avversario del Cagliari vanta una storia intrisa di passione, trionfi e dolore. Quanto pesa indossare quei colori… insieme, onore e responsabilità

DIVERSITÀ. La Torino calcistica è storicamente divisa a metà, dove ciascuna parte identifica vicende e valori molto diversi fra loro. Chi decide di legare il proprio tifo al Torino, invece che alla Juventus, lo fa spesso per motivi che oltrepassano il valore della squadra in quel momento: si innamora del vissuto di questa società, così intenso da non avere eguali nel nostro Paese. Scopriremo perché. Poco meno di un secolo fa, il sodalizio granata fece i suoi primi squilli di tromba. Erano gli anni Venti, il formidabile fuoriclasse di quella squadra era il grande Adolfo Baloncieri. Stella anche della Nazionale, l’alessandrino trascinò il Toro agli scudetti 1927 (poi revocato per il caso Allemandi) e 1928 innescando l’oriundo argentino Julio Libonatti e Gino Rossetti: il cosiddetto “Trio delle meraviglie”.

LEGGENDA. Ma fu negli anni Quaranta che la squadra piemontese costruì la sua leggenda, destinata a trovare spazi a caratteri cubitali nella storia del calcio italiano. Ferruccio Novo divenne presidente nel 1939, industriale del cuoio che poté dedicarsi anima e corpo al Torino cedendo il timone degli affari di famiglia al fratello Mario. Novo trasformò il club in una vera e propria azienda, circondandosi di fidatissimi e validi collaboratori. Fu così che nacque il Grande Torino: assemblando alcuni tra i migliori talenti sulla piazza, venne costruita una squadra di valore assoluto basata sul “sistema” o WM. Il portiere Bacigalupo, Aldo Ballarin, Maroso e Rigamonti in difesa, Grezar e Castigliano centrocampisti, i formidabili interni Loik e Mazzola, il centravanti Gabetto supportato dalle ali Menti e Ossola. Questi undici campioni diventarono pressoché invincibili, conquistando quattro scudetti consecutivi (1943, 1946, 1947 e 1948) spazzando via la concorrenza a suon di gol, spesso mettendo in atto il celebre “quarto d’ora granata“.

Una formazione del Grande Torino. Da sinistra a destra, in piedi: Castigliano, Ballarin, Rigamonti, Loik, Maroso, Mazzola. Accosciati: Bacigalupo, Menti, Ossola, Martelli, Gabetto.

Il Grande Torino fornì alla Nazionale italiana fino a dieci giocatori contemporaneamente (tutti tranne Ossola). Una storia fantastica, che nel campionato 1948-49 si avviava a scrivere la vittoria del quinto scudetto di fila. Tutto terminò tragicamente il 4 maggio 1949 quando, di rientro da un’amichevole in Portogallo, l’aereo su cui viaggiava la squadra si schiantò sulla Basilica di Superga. Tranne Novo e qualche giocatore non partito per la trasferta, il Grande Torino fu annientato completamente ed entrò nel mito. Una sciagura che commosse il mondo.

DIFFICOLTÀ. Rialzarsi dopo una tragedia simile non fu semplice. Il Torino ritornò tutto ad un tratto una realtà “normale” e cambiò prospettive. Indossare la casacca granata diventò un onore e una responsabilità per chiunque: brillarono poi particolarmente con quei colori due ragazzi destinati anche loro al mito, per motivi diversi. Giorgio Ferrini incarnò la figura del capitano grintoso, Gigi Meroni quella del funambolo irridente e geniale.

Gigi Meroni

Morirono entrambi prematuramente, unendosi idealmente al Grande Torino tra gli immortali granata. Nel 1976 arrivò l’ultimo scudetto, Gigi Radice allenatore e i “gemelli del gol” Pulici-Graziani in attacco. In seguito il Toro visse annate ricche di alti e bassi, qualche caduta in B e difficoltà economiche.

Francesco Graziani e Paolo Pulici

Il paragone tra la Torino bianconera ricca e vincente con quella passionale ma tormentata granata si è acuito notevolmente negli ultimi lustri. Con l’avvento di Urbano Cairo alla presidenza del club, il Torino è però riuscito a tornare in Europa sulla spinta del bomber rampante Andrea Belotti, degno erede dei grandi attaccanti del passato.

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