Il Cagliari precipita verso la Serie B senza quasi opporre resistenza. È tutto perduto? Forse. Ma non deve essere lasciato nulla di intentato
È lo slogan coniato dalla gestione Giulini al suo ingresso in rossoblù. Una terra, un popolo, una squadra. Avrebbe dovuto rimarcare, semmai ce ne fosse bisogno, che il Cagliari non è la squadra di una città, ma di una comunità molto più vasta. Un popolo che va oltre i confini territoriali della regione sarda, sparso in ogni parte del mondo. La squadra rossoblù ha assunto nel tempo la capacità di tenere uniti, nel bene e nel male. L’amore per la squadra è sempre stato molto forte. Ma quello stesso amore va meritato, e ciò che sta accadendo in questo campionato è tutto tranne che meritorio di affetto e supporto.
La squadra è incapace di reagire alle avversità, fragile mentalmente, e che si sfalda al primo vero ostacolo. I problemi della stagione sono ben noti: dalla scelta dell’allenatore (Di Francesco), alla costruzione di una rosa deficitaria in alcuni reparti, a un mercato di gennaio incomprensibile (che se possibile ha peggiorato la situazione), per arrivare poi alla scelta di un nuovo tecnico (Semplici), attraverso una decisione incredibilmente tardiva.
Tutte situazioni che giustificano molto dei risultati impietosi del campo, ma non tutti. Non è infatti giustificabile l’assenza totale di orgoglio. Questa squadra ne è gravemente carente. Senza, è già retrocessa, soprattutto nell’anima. Quello slogan, Una terra, un popolo, una squadra, aveva un senso. Quel senso ora è sospeso. E il silenzio del presidente non aiuta: bisogna riaccendere gli animi, sfidare il destino, alzare la voce. Il pubblico non può farlo. Dimostri, questo gruppo di giocatori, che il fuoco non è ancora spento. La Serie A non è ancora svanita.