
Cosa significa praticare un buon calcio in una piccola realtà e cosa manca al Cagliari di Diego López in questo senso
Quando si legge di un Cagliari che ha giocato male viene quasi automatico pensare che sarebbe un po’ pretenzioso chiedere di giocare un bel calcio ad una squadra con mezzi tecnici limitati. In parte questo è vero, ma c’è un equivoco di base da sfatare: “buono” non è uguale a “bello”.
IL BEL CALCIO. Se parliamo di giocare bene non possiamo non immaginarci subito la pelata e la barba di Pep Guardiola. Le sue squadre sono un inno al bel calcio, dove la tecnica e il controllo della palla vengono esaltati a vantaggio di un gioco fluido ed efficace. Senza andare troppo lontani anche il Napoli di Sarri pratica un bel calcio fatto di fraseggi e verticalizzazioni. Oppure la Sampdoria di Giampaolo, se pur a fasi alterne dovute ai limiti tecnici.
IL BUON CALCIO. Ci sono poi quelle piccole realtà che non possono ambire ad essere belle nemmeno con tutta la buona volontà del mondo. A questa categoria appartengono la stragrande maggioranza dei club, compreso il Cagliari. Queste squadre giocano bene quando nei meccanismi messi in pratica durante le partite è riconoscibile l’impronta dell’allenatore, quando è chiara l’idea di calcio che si vuole adottare e i mezzi con cui la si vuole esprimere.
I ROSSOBLU’. Oggi il Cagliari non è una squadra che gioca bene per il semplice fatto che i giocatori non sembrano avere chiaro come portare avanti la palla. C’è l’idea di aspettare l’avversario e ripartire, ma alla messa in pratica i giocatori riescono a fare solo la prima delle due fasi. Si provano dei lanci lunghi a cercare la sponda di Pavoletti, oppure si tentano dei cross dalle fasce per il centravanti, regalando palla agli avversari il più delle volte. Tutto questo produce un calcio sterile e al limite dell’improvvisazione.
